Oggi sono certo di chiedervi uno sforzo, la poesia proposta è impegnativa, davvero impegnativa. Serve però ad inquadrare la poetica di E.A. Poe, maestro dell’incubo e precursore degli scrittori di thriller e di horror contemporanei. Egli fu ispiratore e argomento di studio, nonstante la contemporaneità, dei maledtti francesi e, sicuramente uno dei più grandi poeti americani di tutti i tempi. Precursore del romanzo poliziesco e come detto della letteratura horror, fu incompreso e contestato al suo tempo, visse in situazioni di indigenza e sotto il giogo degli stupefacenti e dell’alcool. Cio nonostante ha lasciato perle rivalutate nei secoli a venire, che lo hanno reso punto di riferimento per molti scrittori moderni, H.P Lovecraft su tutti.
Il Corvo, compendia nella lunga esposizione di versi, buona parte delle tematiche care a Poe e permette di apprezzarne lo stile “gotico”, quasi ridondante che ne caratterizza la scrittura. Nel poema si parla di morte, di terrore, di dipartita, di “nevermore” ovvero il “mai più” o il “nulla più” italiano che caratterizza la chiusura di ognuna delle 18 strofe del componimento. Un chiaro alludere all’impossibilità di risolvere il mistero della morte e della scomparsa di Lenora. Come in ogni thriller che si rispetti!
Buona Lettura!

IL CORVO – EDGAR ALLAN POE
Una volta, a mezzanotte, mentre stanco e affaticato meditavo sovra un raro, strano codice obliato, e la testa grave e assorta — non reggevami piú su, fui destato all'improvviso da un romore alla mia porta. «Un viatore, un pellegrino, bussa — dissi — alla mia porta, solo questo e nulla più!» Oh, ricordo, era il dicembre e il riflesso sonnolento dei tizzoni in agonia ricamava il pavimento. Triste avevo invan l'aurora — chiesto e invano una virtù a' miei libri, per scordare la perduta mia Lenora, la raggiante, santa vergine che in ciel chiamano Lenora e qui nome or non ha più! E il severo, vago, morbido, ondeggiare dei velluti mi riempiva, penetrava di terrori sconosciuti! tanto infine che, a far corta — quell'angoscia, m'alzai su mormorando: «È un pellegrino che ha battuto alla mia porta, un viatore o un pellegrino che ha battuto alla mia porta, questo, e nulla, nulla più!». Calmo allor, cacciate alfine quelle immagini confuse, mossi un passo, e: «Signor — dissi — o signora, mille scuse! ma vi giuro, tanto assorta — m'era l'anima e quassù tanto piano, tanto lieve voi bussaste alla mia porta, ch'io non sono ancor ben certo d'esser desto». Aprii la porta: un gran buio, e nulla più! Impietrito in quella tenebra, dubitoso, tutta un'ora stetti, fosco, immerso in sogni che mortal non sognò ancora! ma la notte non dié un segno — il silenzio pur non fu rotto, e solo, solo un nome s'udì gemere: «Lenora!» Io lo dissi, ed a sua volta rimandò l'eco: «Lenora!» Solo questo e nulla più! E rientrai! ma come pallido, triste in cor fino alla morte esitavo, un nuovo strepito mi riscosse, e or fu sì forte che davver, pensai, davvero — qualche arcano avvien quaggiù, qualche arcan che mi conviene penetrar, qualche mistero! Lasciam l'anima calmarsi, poi scrutiam questo mistero! Sarà il vento e nulla più! Qui dischiusi i vetri e torvo, — con gran strepito di penne, grave, altero, irruppe un corvo — dell'età la più solenne: ei non fece inchin di sorta — non fe' cenno alcun, ma giù, come un lord od una lady si diresse alla mia porta, ad un busto di Minerva, proprio sopra alla mia porta, scese, stette e nulla più. Quell'augel d'ebano, allora, così tronfio e pettoruto tentò fino ad un sorriso il mio spirito abbattuto: e, «Sebben spiumato e torvo, — dissi, — un vile non sei tu certo, o vecchio spettral corvo della tenebra di Pluto? Quale nome a te gli araldi dànno a corte di Re Pluto?» Disse il corvo allor: «Mai più!». Mi stupii che quell'infausto disgraziato augello avesse la parola, e benché quelle fosser sillabe sconnesse, trasalii, ché, in niuna sorta — di paese fin qui fu dato ad uom di contemplare un augel sovra una porta, un augello od una bestia aggrappata ad una porta con un nome tal: «Mai più!». Ma severo e grave il corvo più non disse e stette come s'egli avesse messo tutta quanta l'anima in quel nome: sovra il busto, appollaiato — non parlò, non mosse più finché triste ebbi ripreso: «Altri amici m'han lasciato! il mattin non sarà giunto ch'egli pur m'avrà lasciato!». Disse allor: «Mai più! mai più!». Scosso al motto ch'or sì bene s'era apposto al mio pensiere, «Certo, — dissi, — queste sillabe sono tutto il suo sapere! e chi a tale ritornello — l'addestrò, forse quaggiù sarà stato sì infelice ch'ogni canto suo più bello come un requiem, non aveva ogni canto suo più bello a finir che in un mai più!» Ma un pensier folle ancor voltomi a un sorriso il labbro torvo: scivolai su un seggiolone fino in faccia al busto e al corvo, e qui, steso nel velluto — presi intento a studiar su cosa mai volesse dire quel ferale augel di Pluto, quel feral, sinistro, magro, triste, infausto augel di Pluto col suo lugubre: «Mai più!». Così assorto in fantasie stetti a lungo, e sempre intento all'augello i di cui sguardi mi riempivan di spavento, non osai più aprire labro — sprofondato sempre giù fra i cuscini accarezzati dal chiaror di un candelabro fra i cuscini rossi ov'ella, al chiaror di un candelabro, non verrà a posar mai più! Allor parvemi che a un tratto si svolgesse in aria, denso e arcan, come dal turibolo d'un angelo, un incenso. «O infelice, dissi, è l'ora! — e infin ecco la virtù e il nepente che imploravi per scordar la tua Lenora! Bevi, bevi il filtro e scorda! scorda alfin questa Lenora!» Mormorò l'augel: «Mai più!». «O profeta — urlai — profeta, spettro o augel, profeta ognora! o l'Averno t'abbia inviato — o una raffica di bora t'abbia, naufrago, sbalzato — a cercar asil quaggiù, in quest'antro di sventure, di' al meschino che t'implora, se qui c'è un incenso, un balsamo divino! egli t'implora!» Mormorò l'augel: «Mai più!». «O profeta — urlai — profeta, spettro o augel, profeta ognora! per il ciel sovra noi teso, per l'Iddio che noi s'adora di' a quest'anima se ancora — nel lontano Eden, lassù, potrà unirsi a un'ombra cara che chiamavasi Lenora! a una vergine che gli angeli ora chiamano Lenora!» Mormorò l'augel: «Mai più!». «Questo detto sia l'estremo, spettro o augello — urlai sperduto. Ti precipita nel nembo! torna ai baratri di Pluto! non lasciar piuma di sorta — qui a svelar chi fosti tu! lascia puro il mio dolore, lascia il busto e la mia porta! strappa il becco dal mio cuore! t'alza alfin da quella porta!» Disse il corvo: «Mai, mai più!» E la bestia ognor proterva — tetra ognora, è sempre assorta sulla pallida Minerva — proprio sopra alla mia porta! Il suo sguardo sembra il guardo — d'un dimon che sogni, e giù sui tappeti il suo riflesso tesse un circolo maliardo, e il mio spirto, stretto all'ombra di quel circolo maliardo non potrà surger mai più!
SZ