PINK FLOYD – The Final Cut – 1983

Analizziamo il più controverso e, meno amato, disco dei PINK FLOYD, prossimo ormai ai quarant’anni

Fans o no, per gli appassionati di musica rock anglosassone i Pink Floyd sono imprescindibili. Almeno quattro album essenziali per comprendere l’evoluzione della musica rock, partendo dagli anni 60 per giungere fino ai 90 ( o già di li…)

Qualunque appassionato del genere ha ascoltato, qualcuno consumato, i dischi dei PF: da The Piper at the Gates of Dawn (in assoluto il mio preferito), passando per Atom Heart Mother, per arrivare al successo universale di the Dark side of the Moon e poi fino ai fasti (o nefasti all’interno del gruppo) dei giorni di The Wall.

Già indicando questi quattro dischi so di aver scatenato discussioni a iosa fra appassionati che si lamenteranno dell’assenza di Animals o di Ummagumma, ma avrete già capito che non sono esattamente un fan dei Pink Floyd. Li ho ascoltati, li ascolto ma non ho mai provato quell’”amore viscerale” che ti rende fan, assolutamente fan, al punto da comprare i dischi dei miei gruppi o solisti indipendentemente dalle recensioni o dai commenti, il fan compra il disco PER il gruppo o per l’ARTISTA….

Tutto ciò premesso torniamo al tema del post THE FINAL CUT ovvero l’ultimo disco della formazione post Syd Barret (Waters, Gilmour, Mason e con Michael Kamen alle tastiere) prima dell’abbandono di Waters e delle beghe legali sul diritto del nome.

L’ho riascoltato pochi giorni fa, è un disco estremamente attuale per tematiche (la guerra), per sviluppo del concept dell’album e anche per qualità musicale intrinseca. Non entra quasi mai nelle liste dei Top album di Pink Floyd, anzi nonostante il buon successo commerciale e le critiche positive che lo accolsero alla pubblicazione vive ai margini della discografia PF. Ed è spesso considerato un disco minore della loro discografia forse anche perché dai più è visto come un album di Roger Waters più che dei PF, anche se lo stesso ragionamento potrebbe valere che so, per The Wall dove è Waters a concepire e sviluppare l’album. Aldilà di questo la qualità della musica è altissima, la composizione e l’armonizzazione sulla stessa falsariga e i brani… beh i brani… se qualsiasi altro gruppo rock avesse dato alle stampe questo “episodio finale” si sarebbe gridato al capolavoro, ma il palato dei fan dei PF o di Roger Waters è palato sopraffino e quindi un breve primo posto in classifica in Inghilterra e poi via nel dimenticatoio nel tourbillon del pop-rock anni 80. Forse l’unico neo, e non è da poco, è quello di essere il meno “floydiano” dei dischi della band, con quelle atmosfere quasi ambient dove l’influenza di Kamen si sente non poco.

Ma veniamo al dettaglio del disco, come anticipato più un lavoro solista di Waters che un vero disco dei PF, seppur tutta la band, anche se sull’orlo dello sfascio, partecipi musicalmente alla stesura dell’album, escluso ovviamente Wright che aveva abbandonato il gruppo.

E’ la guerra anglo argentina per le isole Falkland-Malvine, che fa scattare qualcosa nella contorta eppur lucidissima mente di Waters è lui che decide infatti di creare un concept album con nuovo materiale che riporti al comun denominatore di un “urgente” sogno post-bellico durante l’assurda contesa fra Regno Unito e Argentina per quattro inospitali sassi affioranti dall’Oceano Atlantico.

E Waters lo sviluppa coerentemente il concept, tanto che The Final Cut fonde, o confonde per alcuni, i resti dei Pink Floyd con l’ego di Waters, strabordante, che relega gli altri al ruolo di puri esecutori (e che escutori…) di un opera ibrida e “strana” nonché assai coinvolgente con almeno tre/quattro diamanti incastonati in un tappeto di suoni e parole che purtroppo sentiamo ancora molto, troppo attuale: The post-war dream, The Gunner’s dream, The Fletcher Memorial Home e The Final Cut, possiedono quell’incedere dolente tipico dei risvegli post catastrofe, eppure fiducioso nel futuro e, addirittura ottimista sulla visione del futuro che li pone, decisamente un gradino sopra il resto della scaletta che comunque non è assolutamente banale.

Devo dire che raramente un disco di quasi 40 anni, ma d’altro canto siamo Out of Time, fa si è fatto ascoltare così “bene” da orecchi non proprio accordati sul mondo PF (o Roger Waters).

Un ‘esperienza interessante e un modo per valutare in maniera distaccata un disco sul quale i giudizi sono stati all’epoca molto condizionati dal particolarissimo momento che stava vivendo la band.

Come sempre ribadisco, opinione assolutamente personale.

Buon ascolto e ben tornati!!!

Out of Time

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